venerdì 28 marzo 2014

Dal diario di Frank Iodice: 17 marzo 2014

Ecco le parole di Frank Iodice del 17 marzo. 
Continuate a seguire il suo viaggio in Uruguay.

17 marzo: Calle Reconquista

Come vi ho raccontato, oggi c’era la possibilità di incontrare il Presidente di persona, la qual cosa, in un paese europeo non sarebbe stata così scontata. Prima di raccontare come è andata, mi piacerebbe descrivere la zona nord, la strada per l’aeroporto è una strada desolata che, il giorno in cui sono arrivato e ho preso l’autobus per il centro, mi ha ricordato le grosse aree di servizio americane, quei desolati centri commerciali davanti ai quali ci sono le carrozzine elettriche per gli obesi, tutte in fila, parcheggiate come automobili a noleggio, ricordi tristi, immagini che da ragazzo mi hanno colpito e che mi ritornano in mente ogni volta che succede qualcosa di spiacevole.

Stamattina, insieme a un venezuelano, fuggito dal suo paese, dove prima ti sparano e poi ti prendono le scarpe, sono andato al Parque Rivera. Nel Parque Rivera si sono riuniti tutti i giocatori di baseball che nei loro paesi sono stati dei campioni, anche io, che arrivavo
dalla Francia, potevo raccontare che la mia media in battuta era enorme, tutto diventa enorme quando si tratta di parlare di sé, per cui, questo gruppo di ex campioni fuori forma, riuniti a Montevideo, chi per lavoro, chi di passaggio durante un viaggio nei paesi latinoamericani, si è diviso in tre squadre. Ed è così che si combina un mini torneo su un prato, le basi erano ritagliate da vecchi materassi, le uniformi improvvisate unendo gli scuri contro i chiari, io sono finito tra i chiari ma avevo una maglietta nera, e poco più per giocare felicemente, senza lo stress di un vero campionato, senza la competizione delle grandi leghe, una bottiglia di birra da due litri ti aspettava in prima base, se battevi forte te la meritavi.

Dopo aver trascorso una mattinata così, vi chiederete, come potevo non essere felice! Ma se dentro porti la responsabilità della felicità di qualcun altro, riesci a esserlo anche tu? Nella mia testa ci sono soltanto i bambini tra i banchi di scuola che stanno aspettando il saggio sulla felicità, le loro mani sotto i banchi sono ancora vuote. Per questo, finché non completerò il mio lavoro, non riuscirò a godermi quasi nulla, e in quel quasi si muove la vita di molti autori, autori di romanzi, di barzellette, di poesie, di sorrisi, autori delle vite, procreatori di felicità, o, semplicemente, uomini e donne che condividono la mia stessa passione per la vita.

L’incontro con il Presidente. Avrei dovuto presentarmi di persona nella segreteria anziché telefonare come mi avevano detto; ho sempre avuto il brutto vizio di prendere alla lettera quello che mi dicono, invece sarebbe stato meglio disubbidire alle indicazioni della bella Cristina, almeno questa volta. Quando ho telefonato, mi è capitata un’altra segretaria, una infelice, con gli occhiali rossi, con i capelli biondi-ramati, uno di quei colori che si vendono nel supermercato e che se sbagli a dosare diventano biondo-ramato, una catenella pendeva dagli occhiali rossi e sbatteva contro la cornetta, il resto l’ho immaginato io mentre mi diceva: non ho idea di cosa mi stia parlando, mi dava del Lei, un saggio su cosa? Sulla felicità? No, nulla, non trovo alcun dossier con il numero di protocollo che mi ha dato. La scorsa volta non ne hanno avuto bisogno, le mie carte erano lì sulla scrivania. Quale scrivania? Non so, quella che è lì, accanto a lei, quella di Cristina, suppongo, la responsabile dell’agenda. La segretaria con gli occhiali rossi allora ha capito di cosa si trattava e mi ha detto: la sua domanda è stata accettata. Ma? Ma è stata trasferita al MEC. E che cos'è il MEC? le ho chiesto. Il Ministero dell’Educazione e della Cultura, la contatteranno loro entro la settimana prossima, ma se non può aspettare può andarci di persona, si trova in calle Reconquista. Non c’è problema, mi sono trasferito qui, aspetto tutto il tempo necessario, anche un anno. Intanto riflettevo sulle parole e sulla loro nascita spontanea: reconquista, riconquista, per me questa parola aveva molti significati, che via via comprenderete anche voi.

Mentre aspetto che il MEC mi contatti, dunque, proseguo con la traduzione del testo in spagnolo, per ora non l’ho mostrato a nessuno, ho paura che me lo rubino, che mi rubino la felicità! Il saggio tradotto in spagnolo sarà pubblicato anche qui! Mi sento davvero fortunato già a essere arrivato a questo punto, mi hanno preso sul serio nonostante la barba, brutto biglietto da visita nel sud della Francia, dove mi hanno cacciato da molti posti, e hanno passato il progetto al Ministero della Cultura sebbene abbia parlato vagamente di un saggio che non ho ancora mostrato a nessuno.

Per quanto riguarda il Presidente Mujica, ci sono diverse vie informali per incontrarlo e parlare anche con lui del nostro progetto culturale. Appena il saggio in spagnolo sarà pronto, lo mostrerò direttamente a lui. Questo mestiere mi ha insegnato, tra le altre cose, a essere testardo e costante, forse se non fossi stato scrittore non sarei rimasto qui dopo la telefonata di oggi pomeriggio con la signora con gli occhiali rossi. Invece sono qui da dodici ore, più o meno, e sto traducendo il testo in spagnolo per finirlo il più presto possibile e andare a pranzare al bar dove pranza lui, il Santa Caterina, a due quadre da qui, quello in cui sono entrato casualmente l’altra settimana, attirato dal nome forse. In Uruguay le distanze si misurano in quadras, ogni quadra definisce la fine di una manzana, una mela, cioè un gruppo di palazzi. Ha senso soltanto perché qui i palazzi sono costruiti in maniera simmetrica e dall'alto devono sembrare una scacchiera sulla quale si muovono le pedine e i cavalli, le torri, le regine, soltanto due, una bianca e una nera, e qualche alfiere arrivato dall'altra parte dell’oceano con l’arco e le frecce di riserva.


Alla ricerca di un cuore di Manuela Melissano

Il primo libro, che ha inaugurato la nuova collana Lupo Editore Bovary, è della giovanissima Manuela Melissano con il suo "Alla ricerca di un cuore".
Vi presentiamo una recensione pubblicata su Oubliette Magazine il 21 marzo 2014.
Buona lettura!

Alla ricerca di un cuore”, libro di Manuela Melissano: 
un mosaico che si compone tassello su tassello

Quando si crea un’opera siffatta non si può che soffrire alla fine della creazione; doloroso è tagliare il cordone ombelicale che lega chi scrive alla sua creatura, ma si è anche a questa grati per aver consentito al talento di manifestarsi. Per questo l’autrice, Manuela Melissano, rivolge parole di cuore sincero a chi le ha consentito di trovare la sua strada.
Elisa è una giovane ventenne dalla vita appagante: una famiglia che la ama, la nonna Nella, punto di riferimento, tanti amici, un ragazzo, Lorenzo, un lavoro che la soddisfa pienamente in un centro sociale. Eppure qualcosa le manca, un quid che le è ignoto, ma che la tiene in precario equilibrio e in inquietudine. Certo perché una parte della sua vita le è sconosciuta e questo mistero inconsapevolmente la abita.
Un giorno col cuore alla gola, come se fosse abitata da un inconscio che preme e chiede di essere conosciuto, arriva trafelata in casa, va in cantina alla ricerca della rete da ping pong per giocare in gara nel centro sociale, si rende conto del grande disordine del locale, che è la allegoria di quel quid incomprensibile che si porta dentro e parla al suo posto. Come non pensare al Maestro Freud, per il quale lo stato di disagio proviene dalla ignoranza del nostro inconscio che ci abita e ci spinge verso i lapsus e gli atti mancati?
Così, Elisa, in un freddo pomeriggio invernale , in cui non ha nulla da fare, come seguendo un istinto irrazionale, pulsante, cogente decide di mettere ordine nella cantina, cioè nei sotterranei della sua anima e nuovi paesaggi sconvolgenti si profilano per lei. Aprendo delle scatole, si trova davanti quella verità da cui la famiglia l’aveva tenuta protetta: aveva un sorella, Elena, nata il nove luglio del 1983. Le foto erano inequivocabili: la famiglia riunita con in braccio una bimba e dietro la foto stampata la data; in un’altra scatola le sue foto con la data 4 febbraio 1987, quindi aveva una sorella di quattro anni più grande.
Di qui parte la ricerca della verità in cui l’oggetto dell’indagine coincide col soggetto che indaga: scoprire che fine abbia fatto la sorella equivale a scoprire maieuticamente la sua verità, a capire il perché di certe inquietudini e vuoti esistenziali, come se la terra talora le franasse sotto i piedi, nonostante la generale positività della sua esistenza. Tassello su tassello il mosaico si ricompone e viene a conoscenza dalla viva voce dei genitori e di nonna Nella che Elena è scomparsa quando ella era piccola, mentre si trovavano in villeggiatura nel mare del Salento, terra di origine del nonno, mentre la nonna è fiorentina.
L’occasione è buona per un’ analessi per ricordare come i nonni si siano incontrati, come i genitori, come fosse Elena bambina, come Elisa, quale rapporto unisse le sorelle, un rapporto così intenso da esserne la stessa madre gelosa. Il cuore di Elisa si è spezzato con la scomparsa di Elena, una parte di vita le è sfuggita di mano, e ora che conosce la verità come può far finta che nulla sia accaduto? Come continuare a vivere senza il cuore? Come resistere ancora con l’animo infranto? Elisa non ha scelta; i genitori e la nonna si sono rassegnati, pur in un dolore che non cicatrizza mai, ma lei no, non può, l’imperativo è categorico e non le dà pace: deve mettersi sulle tracce di Elena e, indizi alla mano, verificare se sia o meno morta e eventualmente dove sia. Riuscirà la nostra eroina e trovare la sorella e quali strumenti adotterà per condurre la sua indagine? Ai lettori, che auguro siano molti alla brava scrittrice, il gusto di approdare alla verità.
Il testo è apparentemente semplice e scorre via in un pomeriggio piacevole, ma ad un’analisi più profonda è un bel testo che ne contiene altri: la storia si Elisa che si intreccia e non si intreccia con quella di Elena, l’amore dei loro genitori, l’impressione di avercela fatta a costruirsi una vita, la gioia della duplice maternità, poi il tracollo, la scomparsa di Elena, omonima della zia materna morta ragazza per sclerosi multipla, la disperazione, le indagini per ritrovarla, le illusioni e le disillusioni della ricerca; poi, dopo dieci anni, la rassegnazione che non cicatrizza ma dilania. Intanto le attenzioni iperprotettive rivolte ad Elisa, dove si incuneano le sue insicurezze che si porta dietro a vent’anni suonati.
Nel frattempo la relazione dolcissima e costruttiva con Nonna Nella, l’amore tra lei e il nonno pugliese, con una spaccato su questa realtà a volte primitiva ed oscura, come in un piccolo paese del Sud. Ma, soprattutto, l’opera mi sembra un viaggio di educazione sentimentale con la consapevolezza sacrosanta che chi non conosce il proprio passato è costretto a riviverlo: questo capita ad Elisa, che è costretta dalla necessità interna a mettersi sulle tracce di Elena, ma questo capita, in ambiti diversi e purtroppo talora affini, a tutti noi che dai greci in poi ci portiamo dentro questa logica cui non possiamo sottrarci: la conoscenza di noi stessi, per la quale ci riappacifichiamo col nostro cuore e con quello altrui.
Un bel libro adatto a tutte le età dai quattordici anni ai cento, agli appassionati di psicologia e anche a quelli che amano il pathos di una ricerca con un finale tutto da scoprire.

Written by Giovanna Albi

mercoledì 26 marzo 2014

Dal diario di Frank Iodice: 15 marzo 2014

Continuiamo a seguire Frank Iodice in Uruguay. Ecco una delle sue note di viaggio.

Tango per strada: 15 marzo

Mentre bevevo un caffè con leche in compagnia di Pablo Lopez, un amico di un’amica che ho incontrato qui a Montevideo e che mi mostrerà una zona in cui è meglio non andare da soli, la musica ha iniziato a diffondersi lungo il marciapiede, attorno alle porte di vetro del bar, come vento che entrava dappertutto. Alle nostre spalle, l’acqua continuava a cadere sui lucchetti arrugginiti della fontana, la moda del ponte vecchio, la moda degli innamorati, uguale in ogni angolo del mondo. Sull’Avenida passavano gli ominibus e qualche automobile vecchia, ancora qualche goccia superstite dell’immensità di acqua caduta per tutta la notte, rumore di secchi sbattuti sulla porta di casa e sui soffitti di vetro a campana. I due ballerini si
chiamavano Cecilia e Mauro, si sono esibiti sulla terrazza, il pavimento di legno avrebbe cigolato senza il tango, ma il tango, si sa, cancella tutti i rumori, è prepotente e ti obbliga a smettere qualsiasi attività. Lei indossava una gonna di raso rosso che non era capace di nascondere le forme perfette delle donne di qui, tutte perfette anche nella umana imperfezione, capelli neri, legati allo stile flamenco spagnolo, guai se mi sentisse, e una camicetta verde che teneva stretti due seni piccoli e duri, per non farli volare via come colombe, lei, quindi, era una ammaestratrice di colombe; lui aveva gli occhi delle persone buone, portava un cappello francese e, giacché non troviamo gusto a descrivere gli uomini, su di lui non diremo altro. I passanti si sono fermati e i camerieri vestiti da donna, con gonne verdi e attillate, hanno smesso di servire, immobili con i vassoi in mano, mentre la coppia si toccava per finta ripetendo i movimenti precisi studiati negli anni di strada: si guardavano senza gli occhi e si toccavano senza mani, o almeno, questa era la mia impressione mentre il mio stupido sandwich dolce con jamon y manzana diventava duro. Lo stupore è come lo zucchero caldo: quando si indurisce non può ritornare liquido.

venerdì 21 marzo 2014

Dal Diario di Frank Iodice: 14 marzo 2014

Continuiamo a seguire Frank Iodice nel suo viaggio in Uruguay. Frank ci ha scritto anche il 14 marzo. Ecco le sue parole...

La costanza mi rende forte
Svegliarmi ogni mattina alle cinque, talvolta prima, senza alcuna sveglia, e sentire le stanze dei vicini vibrare mentre russano o fanno l’amore, è sicuramente ciò che io chiamo costanza, ciò che mi fa sentire chi sono mentre perseguo il mio fine e via via che scrivo, mi sento utile per tutti coloro che vorranno leggere queste parole. Scrivere di notte o al mattino presto è come scrivere seduto nella tua testa.

Mentre i giorni trascorrono sotto le raffiche di calore o di piogge improvvise, l’Avenida centrale, 18 de Julio, si va svuotando rivelando la fine della stagione turistica e l’inizio dell’inverno, durante il quale, mi chiedo, come sarà questa città? Gli uruguayani sono animali sociali, soffrono la solitudine e il silenzio come se fossero il male peggiore al mondo, a loro piace chiacchierare, riunirsi nei bar, in otto attorno ai tavolini per due, e fare in modo che i silenzi spariscano, come se non fossero mai esistiti, come se non avessero mai fatto parte della nostra vita.

Alle spalle del porto, in uno dei locali che una volta servivano ad aspettare le navi in arrivo, o in partenza, oggi c’è uno di quei posti in cui si mangia carne, ma tanta carne, ne arrostiscono in media cinquanta chili al giorno, la griglia grossa dietro al bancone sembra la porta per l’inferno e i clienti che entrano e escono, anime in pena che fanno la fila. C’è chi racconta che qui la carne è migliore di quella argentina, così conosciuta in tutto il mondo, ma se è davvero migliore, mi sono chiesto, perché non è esportata come quella argentina? Anche questa è una questione di mercato? Come dice la gente da queste parti, la storia del Mercosur, il mercato aperto tra i paesi latinoamericani, per ora è solo una storia. Ma a noi non importa, perché abbiamo già detto che in queste note di viaggio non ci occuperemo di politica.
Dopo essere stato al porto, per informarmi su un imbarco in una Ro Ro della Grimaldi che parte a giugno, ho ripercorso alcune strade già scoperte appena arrivato e ne ho approfittato per osservare quei particolari che mi erano sfuggiti, come la puzza dei furgoncini ambulanti che vendono hamburger e panchos, come qui chiamano gli hotdog, o gli uomini liberi che dormono in equilibrio sui muretti rotti attorno alla stazione degli omnibus. Le strade parallele al porto sono caldissime, oggi il sole si è infilato dietro le ultime case e non sono riuscito a vincere la mia scommessa, ho camminato il più in fretta possibile, ma lui è stato più veloce di me. Sarà per la prossima volta, mi sono detto, c’è tempo per vincere le scommesse con il sole!
Ho già parlato della miseria in cui vive la maggior parte della popolazione, e di come nessuno se ne renda conto, e lo stesso vale per le condizioni igienico-sanitarie, delle quali è meglio non parlare affatto. La prima impressione che ho avuto, è stata una sorta di trasposizione nel tempo, è stato come rivedere Napoli in quelle vecchie fotografie scattate dai miei genitori prima che io nascessi. Ho avuto più volte questo deja-vu, anche mentre guardavo le vetrine dei negozi.
Non ho altro da dire oggi, una parte della mia concentrazione è finita nel saggio sulla felicità, succede sempre così, ogni volta che entro nella fase più coinvolgente di un testo, di qualunque testo si tratti, e la parte restante mi serve per lunedì... Vi ho già detto che lunedì parlerò con il Presidente Mujica in persona, o con uno dei suoi assessori? Spero di avere la possibilità di porgli le domande che ho appena tradotto in spagnolo, i suoni della lingua della mia infanzia, intanto, mi fanno sentire di nuovo nelle braccia di mia madre, mentre lei mi cantava dolci canzoni in dialetto maracucho per farmi addormentare...

giovedì 20 marzo 2014

Dal diario di Frank Iodice: 12 Marzo 2014

Abbiamo rubato un'altra pagina al diario di viaggio che Frank Iodice sta scrivendo in Uruguay. Ve la regaliamo.
Si intitola

Accessibilità e democrazia fuori dall'Italia

La settimana scorsa, alla festa in onore della donna, presso la sala cerimoniale della Presidenza della Repubblica, accesso gratuito a tutti i cittadini, ho intravisto il ministro del MIDES (il Ministero per lo sviluppo sociale) Daniel Olasker, seduto in un angolo a chiacchierare con dei suoi colleghi. Due signore che stavano ballando lo hanno riconosciuto e gli si sono avvicinate. Questo mese non abbiamo ricevuto la pensione! gli hanno detto. E lui, ecco la differenza tra l'Uruguay e l'Italia, ha risposto loro: parliamone.

Credevo che si trattasse di un caso isolato e che nessuno potesse chiacchierare di quello che voleva con un ministro incontrato per caso. Ma mi sbagliavo perché la democrazia uruguayana è anche questo.
 
Mentre scrivo queste note ho un sorriso sulle labbra che neanche a quindici anni, dopo aver fatto l'amore per la prima volta, era tanto grande. È incredibile la visione democratica che accomuna la gente di questo paese. La segretaria della Presidenza, Cristina, della quale devo aver già parlato, oggi indossava un top meno scollato ma le sue forme potevano fare il giro della città e ritornare nella mia testa mentre tiravo l'aria discretamente per non vivere troppo quell'attimo di storia personale e mi ripetevo che rifiutarsi di vivere la propria storia è come rifiutarsi di vivere. Il nostro dossier era sulla scrivania, i colleghi, segretari, responsabili della stampa, assistenti dei vari ministri, sapevano chi ero e che cosa facevo lì. Francisco, Francisco, diceva la ragazza, la tua solicitud è davvero interessante! Nella mia mente si susseguivano le facce di Berlusconi, Letta, Estrosi, e tutti gli altri, che si sentono degli dei in terra e non sanno che dall'altra parte dell'oceano un uomo qualsiasi, con un paio di pantaloni di cotone e una maglietta della squadra di baseball di Menton, può entrare nella Segreteria della Presidenza della Repubblica e parlare della felicità.

Mujica è stato fuori per qualche giorno, si è scusata Cristina, io lo sapevo perché tutte le sere consulto il sito ufficiale della Presidencia del Uruguay, si è recato in Cile lunedì per incontrare la Presidentessa e parlare di Mercato sul Pacifico, la salvezza per i paesi latinoamericani. Qui non c'è Mercato, mi ripeteva Cristina mentre si scusava con me, si scusava a nome di Mujica perché non avevano ancora avuto il tempo di fissarmi un appuntamento! un appuntamento con uno sconosciuto qualsiasi, e aspettava in linea. Stava telefonando a lui? Può darsi! Mi si sono sciolte le mani, erano sudore nel quale navigavano le ossa.
Ma perché sto divagando così tanto e non vi ho detto subito che hanno accettato?! Non lo so, forse perché anche io, come tutti gli esseri umani, ho sempre un po' paura di essere felice e volevo posticipare il più possibile questo annuncio.
E se vi dicessi che lunedì pomeriggio mi richiameranno per fissare un appuntamento con lui, con il Presidente José Mujica, o con uno dei suoi assessori per discutere di persona dei dettagli? Ci credereste? Io lo racconterei volentieri a Napolitano o a Hollande!

Vi terrò aggiornati e appena avrò la data precisa vi chiederò di passare per la chiesa del vostro quartiere per accendere un lumino al vostro santo preferito, benché anche lui sia amico intimo dei nostri politici, e chiedergli di intercedere per me.

La cosa più importante è che possiamo proseguire con il saggio sulla felicità. Sono a pagina 23, mi tremano un po' le mani, ma cercherò di concentrarmi per proseguire...

martedì 18 marzo 2014

8 marzo 2014 – Prime impressioni su Montevideo

Che cos'è la felicità? È la domanda che da secoli l'umanità si pone, mai pienamente soddisfatta della risposta. La felicità è diventata, nel corso delle ere, una meta da raggiungere, un traguardo da tagliare, un bene da conquistare. È questo che ha spinto pensatori di tutte le parti della terra a ricercarla per comprendere dove essa si situi.

Ma se la felicità si trovasse agli estremi confini della Terra? È quello che si è chiesto lo scrittore Frank Iodice, italiano trapiantato a Nizza, il quale sostenuto da Lupo Editore e dal Comune di Corigliano d'Otranto, nella persona del suo sindaco Ada Fiore, ha intrapreso un viaggio in giro per il mondo alla scoperta di luoghi ed esperienze felici. La prima tappa è Montevideo, in Uruguay, dove Frank incontrerà il capo di Stato José Alberto Mujica Cordano, 78 anni, detto “El Pepe”, il Presidente dei poveri, per intavolare con lui un dialogo sulla felicità.
Ecco il primo resoconto di viaggio che Iodice ci ha mandato dall'Uruguay.


Riguardo al nostro progetto

Coloro che non credono nelle proprie idee folli, vorrebbero rovinare anche quelle degli altri; bisogna essere testardi e non ascoltare nessuno, solo quella vocina che ci dice: vai.
Fin da piccolo, mio padre mi ha insegnato a essere un uomo libero e a parlare a chiunque con la stessa passione, al salumiere Tonino, quando vivevo a Napoli ed ero solo un bambino, o a un Presidente della Repubblica, se mai un giorno sarebbe successo. Ed è successo!

Quando ho sentito per la prima volta i discorsi del Presidente José Mujica, mi sono detto: quest’uomo può cambiare lo stato delle cose, risvegliare quel sentimento di ribellione sacrosanto che ci rende uomini e donne liberi e che ormai sembra assopito nell’animo di tanta, troppa gente. Così, ho incominciato ad appassionarmi alla sua filosofia di vita e a tradurre in italiano i suoi discorsi e le interviste che i vari giornali di tutto il mondo hanno realizzato negli ultimi anni.
Ma non mi bastava, io volevo fare di più, soprattutto per i bambini. Mi sono reso conto che i giornali, per ragioni ovvie, non potevano fare a meno di confondere il messaggio filosofico con quello politico, e del secondo, francamente, non me ne importava nulla. Se avessi voluto approfondire il secondo aspetto, mi sarei documentato sulle origini del partito del Frente Amplio, contraddittorie con gli attuali programmi filo-madureschi e pro-minerari; avrei intervistato un po’ di gente nel Barrio Palermo, quello vero, quello in cui se non fai attenzione ti rubano anche le scarpe, e scoperto che in fin dei conti a Montevideo non tutti vedono Mujica come un salvatore, anzi... girano voci controverse circa la sua magnanimità; avrei scoperto che gli anziani, quegli stessi uomini e donne che negli anni Sessanta hanno condiviso la cella con lui, oggi conoscono le vere ragioni delle sue rinunce economiche e delle sue scelte di vita; dopo aver ceduto il novanta per cento del suo stipendio a un programma di recupero per abitazioni destinate a giovani madri senza lavoro, avrei scoperto che Mujica ha venduto il progetto ai venezuelani, i quali lo hanno pagato venti milioni di dollari! Tutto questo lo avrei scoperto se mi fossi interessato politicamente alla faccenda, invece, come vi ho detto, il mio è stato un approccio filosofico.

È così che ho deciso di scrivere un saggio sulla felicità, da distribuire tra i giovani pensatori nelle scuole europee.

Per realizzare questo testo e ottenere il permesso del Presidente, senza alcuna certezza che ci sarei riuscito, sono partito per l’Uruguay con un biglietto di sola andata e uno zaino con un po’ di biancheria pulita e i miei appunti personali. Un romanzo di Onetti mi ha fatto compagnia durante il volo per Buenos Aires, dove sono rimasto mezza giornata per vedere degli amici. Per attraversare la foce del fiume, poi, ho viaggiato sul ferry, l’acqua odorava di spaghetti con le vongole: Napoli e i suoi sapori vivono dentro di me, sebbene sia nato in una famiglia di emigranti e viva lontano dall’Italia da molti anni ormai...
Rimanere qui per un po’ era indispensabile. Non potrei ambientare una storia in un posto che non ho visto con i miei occhi, mi sembrerebbe di prendere per il culo i lettori e me stesso. Per questo sono partito e ho lavorato notte e giorno, di notte scrivendo il saggio e di giorno camminando e prendendo appunti in questa splendida città degli opposti.
Ciò che mi ha inorgoglito di più è stato l’appoggio dell’editore Cosimo Lupo, una persona eccezionale, e della filosofa e sindaco Ada Fiore, i quali, senza neanche sapere come sarebbe andata, hanno da subito sostenuto il mio progetto. Per la prima volta da quando vivo all’estero, ho sentito di partire assieme a qualcuno e non più da solo.

Arrivato a Montevideo, dopo aver trovato una stanza economica in un appartamento di calle Canelones, mi sono messo la camicia pulita e sono andato in Plaza de la Independencia, non dormivo da due giorni.
La cosiddetta Torre Ejecutiva è un edificio di vetro in cui si riflette lo storico Palacio Salvo: davanti all’ingresso, ho aspettato qualche minuto prima di entrare per convincermi che non stavo sognando.
All’accettazione ho spiegato chi ero e che cosa ci facevo lì, mi hanno guardato prima con tenerezza perché non credevano che arrivassi dalla Francia senza un appuntamento, poi mi hanno dato un tesserino per entrare e chiedere della segretaria, Cristina, al livello meno uno. Quando sono entrato nella segreteria del Presidente per mostrargli il mio dossier, mi sentivo un uomo nuovo, e utile. Sentivo che ciò che stavo facendo aveva finalmente un senso, come quello che cerco costantemente nei miei romanzi.

Ho fatto appello a tutte le mie capacità persuasive, cercando di essere diretto, chiaro e onesto; avevo la voce sicura perché quella la impari parlando con la gente, ma sotto i pantaloni nessuno vedeva che mi tremavano le ginocchia; già soltanto essere ascoltato da una segreteria del Presidente della Repubblica mi sembrava surreale, qualcosa che né nel mio paese né in Francia sarebbe stato possibile.
La segretaria, gentile e divertente personaggio da romanzo, aveva una delle più provocanti scollature mai viste in vita mia, ma a me non importava nulla! Ero diventato un produttore di parole, asessuato, e pensavo soltanto alla mia idea folle. La bella Cristina mi ha dato un numero di telefono diretto per le prossime comunicazioni, come se mi stesse dando il numero del salumiere Tonino, e ha assegnato un codice di protocollo alla mia pratica. Mentre spiegavo il progetto e lei mi sorrideva e mi rispondeva dandomi del Tu, mi ripetevo: ce l'hai fatta Frank. Per loro va bene, il progetto è un bel progetto. Entro mercoledì avrò la risposta definitiva di José Mujica in persona! E presto vi racconterò come è andata...


Riguardo alla città

Qui c’è una strana accoppiata di miseria e sofferenza, ma la seconda non è causata dalla prima come succede in molti paesi realmente poveri. Sto girando molto da quando sono arrivato, non riesco a dormire per l'eccitazione di scoprire un nuovo posto, ho parlato con un sacco di gente, giovani e vecchi, tutti felici di darmi informazioni utili, e sto prendendo gli appunti che mi mancavano per il saggio sulla felicità. Lo distribuiremo nelle scuole italiane, racconto alla gente, e tutti mi sorridono come si sorride a chi fa del bene senza chiedere nulla in cambio.


C'è molta povera gente che va in giro con vere e proprie pezze addosso, e anche quelli che lavorano sembrano passarsela abbastanza male, non ho visto nessuno che indossasse una camicia stirata o un paio di scarpe nuove. Nei quartieri poveri vicino al porto ho incontrato dei bambini con gli stracci addosso che giocavano con un pallone di pezza. Neanche uno di gomma, mi sono detto, proprio di pezza! Non sono riuscito a guardarli negli occhi, erano occhi da adulto, non ridevano mentre giocavano.
Le ragazze sono bellissime, dei corpi che sembrano fatti con la cera, e quanto più sono povere tanto più sono belle, ma non mi dilungherò su questo argomento, giacché perderei la mia obiettività.

Ho cercato il bar in cui ambientare il testo, tutti mi sembravano i classici baretti scuri e sporchi come quelli in cui mangiavo quando vivevo in Spagna da ragazzino, ma nessuno aveva la cornice adatta. Mia madre è venezuelana, dicevo alla gente, sono tornato in Sudamerica dopo trentadue anni per scrivere un saggio sulla felicità.
Poi, alle spalle di Plaza de España, all’angolo di un vecchio edificio proprio di fronte alla Rambla, ho visto una caffetteria, aveva la piazza verde da un lato e il mare dall’altro. Mi ci sono seduto per riposare le spalle e la testa. Mi piaceva perché mi ricordava il mio bar-ufficio in Place Garibaldi, vicino casa mia, a Nice.
La cosa buffa è che quando ho chiesto informazioni su Mujca a due signore che mangiavano pechuga rellena accanto a me, queste mi hanno risposto: el Pepe? lui pranza proprio in questo bar, tutti i giorni...

Nelle aiuole, invece dei colombi, ci sono i pappagalli, le loro urla tengono svegli cani e cavalli a tutte le ore. E gli operai chileni davanti agli edifici in costruzione, nella pausa pranzo si siedono sul bordo del marciapiede e preparano la carne su una brace improvvisata invece del solito panino con la mortadella.
Il lungomare, la Rambla, ha qualcosa di selvaggio, nella sua semplicità è indomabile, di pietra rossa, come quella di un bastione alto sul mare e inattaccabile. L’acqua del Rio de la Plata è marrone, ma non perché sia sporca, piuttosto perché sembra brulicare di vita, agitare tutto ciò che le sta dentro. Mi ricorda una parte del porto di Marsiglia, il Panier, ma questo è solo un ricordo mio, non c’entra nulla con Montevideo.
Mi piace il fatto che nessuno indossi vestiti puliti, mi consola sapere che ho fatto bene a partire con un solo paio di jeans e mi sentirò meno straniero, ma per quello basta bere il mate.

Domani andrò nel Rincón del Cerro, il quartiere povero in cui vive el Pepe (come lo chiamano qui). Ho incontrato qualcuno che mi ci può portare in macchina. Conosco il proprietario del Bar del Rancho, il signor Barel, mi ha detto, el Pepe mangia lì quando è libero, se chiedi di lui il signor Barel ti ci porta subito dal Pepe!

Mi spaventano i due eccessi della città, le ragazze sottili e ipnotizzanti che sfilano con la naturalezza delle uruguayane e mi fanno sbagliare strada; le signore obese che dondolano sulle carrette tirate dai somari mal nutriti, e si fermano di bidone in bidone per cercare plastica e bottiglie; i grattacieli costruiti apposta per i turisti americani, quelli, che sembrano portarseli appresso i loro grattacieli; le capanne fatte di lamiere azzurre e rosse; questi operai che arrostiscono parrillas dappertutto; e gli uomini e le donne soli, seduti sui marciapiedi con il thermos per il mate sotto il braccio che gli fa compagnia...